Appunti per una lettura degli stemmi quattrocenteschi presenti nel castello
a cura di Gianfranco Rocculi

Torelli (Arma famigliare originale parlante[1])
Arma: Di rosso, al toro furioso d’oro.
Alias: D’azzurro, al toro furioso d’oro.
Pompeo Litta[2], nella sua opera Famiglie celebri d’Italia, oltre alla genealogia del casato dei Torelli dà un’interpretazione riassuntiva dello stemma portato dalle varie linee: «Il toro è lo stemma originario. La biscia, stemma de’ Visconti fu data dai duchi di Milano ai Torelli in benemerenza de’ servigi. Il leone colla fiamma in petto simbolo di coraggio, fu dato nel 1424 dalla regina Giovanna II a Guido Torelli in premio al suo valore nella guerra contro Alfonso d’Aragona. I Torelli di Forlì oltre al toro avevano la croce bianca in campo rosso per privilegio di quella città, e que’ di Fano portavano anche le bande oro e azzurro. Lo stemma che si pubblica è quello usato dalle diramazioni de’ conti di Guastalla e di Montechiarugolo»
Stemmi sui prospetti esterni [1]
Guido Torelli (arma personale[3] tipo A1, incremento con cartiglio)
Arma: Di [argento], al biscione di [azzurro], coronato di [oro], ondeggiante in palo e ingollante un fanciullo di [rosso](Visconti); con in orlo un cartiglio attorcigliato cucito del campo, carico nelle volute del motto, in caratteri gotici, ripetuto due volte YN HOFFEN di nero.
Scudo a tacca, timbrato da elmo torneario, con cercine e lambrecchini a nastro. Cimiero un ceffo di leone, cimato da due pennacchi di penne di struzzo, recante ai fianchi le lettere in caratteri gotici, sormontate da tilde[4] ad arco, «CO [Comes]» e «GT [Guidus Torellus]».
Motto: «YN HOFFEN[5] » (ovvero «NELLA SPERANZA[6]»).
Tale stemma è riproposto nei prospetti esterni in ben sei situazioni, rappresentato con identica iconografia, seppur in dimensioni leggermente diverse. Si trova collocato in corrispondenza degli ingressi dotati di ponte levatoio, nei pressi della cortina immediatamente a fianco e in prossimità della loggia esterna.

Guido Torelli (arma personale tipo B1 con solo incremento “angioino”)
Arma: Di [oro], al leone di [azzurro], [carico sulla spalla di una fiamma[7] cucita di [rosso]] (Giovanna II d’Angiò-Durazzo).
Scudo a tacca, timbrato da elmo torneario, con cercine e cappuccio frastagliato. Cimiero un ceffo di leone, cimato da due pennacchi di penne di struzzo, recante ai fianchi le lettere in caratteri gotici, sormontate da tilde[8] ad arco, «CO [Comes]» e «GT [Guidus Torellus]».

Stemmi nella Loggia esterna [2]
Guido Torelli (arma personale tipo A1, incremento con cartiglio)
Arma: d’argento, al biscione d’azzurro, coronato d’oro, ondeggiante in palo e ingollante un fanciullo di rosso (Visconti); con in orlo un cartiglio attorcigliato cucito del campo, carico nelle volute del motto, in caratteri gotici, ripetuto due volte YN HOFFEN di nero.

Impresa[9] del Falco (Guido Torelli)
Un falco ad ali spiegate tiene con gli artigli un cartiglio, con il motto scritto in caratteri gotici e in lingua tedesca: «YN HOFFEN».
Il falco, con altri uccelli da preda, era protagonista di quel mondo che fu l’arte della falconeria, non un semplice diletto ma una vera e propria scienza che fu ampiamente codificata attraverso prolifiche produzioni letterarie[10]. In auge durante l’epoca feudale nelle corti di tutta l’Europa soprattutto in Francia e in Italia, divenne un aspetto fondamentale nella vita sociale dei nobili. Esclusivo privilegio, i cosiddetti falconi da caccia, rinomati uccelli da preda, avevano raggiunto valori inestimabili. La passione dei Visconti per l’allevamento e l’addestramento dei falchi era ben conosciuta ed è documentata spesso oltre che in numerose imprese che li riguardavano, in molti codici miniati. Decembrio, segretario di Filippo Maria Visconti[11], nella biografia scritta sul suo signore, documenta come solesse ricercare ovunque[12] i più begli esemplari di falchi dando prova della sua quasi ossessione per questo tipo di arte venatoria. I vassalli solevano offrire falchi in segno di omaggio al proprio feudatario che sovente nell’occasione veniva ritratto nei vari cicli pittorici cortesi con il prezioso rapace appollaiato sul braccio, quale segno distintivo del proprio potere. Non è un caso che il falco passasse come impresa ai Torelli di Montechirugolo, famiglia legata a Filippo Maria Visconti.

Motto: «YN HOFFEN».
Il registro della decorazione parietale della loggia si dipana in un intreccio a grandi rombi, costituti da cartigli attorcigliati che recano nelle volute il motto, in caratteri gotici e in lingua tedesca: «YN HOFFEN». Al centro, racchiudono il primo stemma personale o l’impresa del Falco. Piccoli cartigli che declinano il motto personale sono invece contenuti all’interno dei triangoli di risulta che si rincorrono lungo i bordi in alto e in basso.

Stemmi del Mastio [3]
Guido Torelli (arma famigliare originale)
Arma: Di rosso, al toro furioso e rivoltato[13] (per cortesia) d’oro.

Guido Torelli (arma personale, tipo A)
Arma: D’argento, al biscione d’azzurro, coronato d’oro, ondeggiante in palo e ingollante un fanciullo di rosso (Visconti).

Guido Torelli (arma personale, tipo B – incremento “angioino”)
Arma: Inquartato: nel 1° e nel 4° d’oro, al leone d’azzurro, carico sulla spalla di una fiamma[14] cucita di rosso (Giovanna II d’Angiò-Durazzo); nel 2° e nel 3° di rosso, al toro furioso d’oro (Torelli).

Guido Torelli (arma personale, tipo B1 – variante con il solo incremento “angioino”)
Arma: D’oro, al leone d’azzurro, carico sulla spalla di una fiamma[15] cucita di rosso (Giovanna II d’Angiò-Durazzo).

Impresa del Falco (Guido Torelli)
Un falco ad ali spiegate che tiene con gli artigli un cartiglio, con il motto scritto in caratteri gotici e e in lingua tedesca: «YN HOFFEN».

Impresa della Mano celeste con penna d’oca (Guido Torelli)
Una mano celeste recante una penna d’oca sembra avere scritto in un cartiglio il consueto motto personale in caratteri gotici e in lingua tedesca: «YN HOFFEN».

La mano celeste uscente da una nube come allusione all’intervento divino si trova raffigurata fin dall’epoca romana, il suo passaggio nella simbologia cristiana quale simbolo della Trinità viene ricordato da S. Agostino. Anche Hall[16] la cita nel suo Dizionario dei simboli. Allusione al nesso con il sacro e a un intervento divino rimanda a un’allegoria della pazienza e all’esortazione a ponderare decisioni e scelte che si ricollegherebbe al motto relativi alla “speranza”, cioè all’“aspettativa con convinzione” nell’adempimento delle promesse.
Salone delle Sirene e del Galeone (Sala Borromeo) [4]
Impresa del Cammello (Vitaliano I Borromeo)

Un cammello[17], inginocchiato in un cesta di vimini, sostiene con la gobba una corona da cui esce un pennacchio di penne di struzzo (3 o 5). La leggenda narra che tale impresa fu utilizzata per decorare la stoffa con cui Vitaliano dei Vitaliani bardò il proprio mulo nel viaggio che compì da Padova a Milano, per raggiungere lo zio Giovanni Borromeo. Costui, privo di discendenza, lo aveva adottato e reso erede delle sue fortune, con il solo obbligo di assumerne il cognome e l’arma: «Siccome stava ivi aspettando la pingua eredità promessagli dai suoi, così volle egli esprimere questo suo desiderio per simbolico segno di un cammello giacente in un canestro, quasi in atto di prendere la soma onde rialzarsi[18]». Il cammello simboleggia la pazienza, la discrezione e la prudenza, poiché sopporta con rassegnazione ogni evento. E’ tramandato, infatti, che i piccoli di questi animali, destinati a raggiungere l’Europa attraversando il mare Mediterraneo, venissero posti nelle stive delle navi entro ceste di vimini con un giaciglio di paglia e che, docili, non si muovessero da quella posizione per tutto il tempo della traversata.
HUMILITAS (Vitaliano I Borromeo)

L’impresa principale dei Borromeo, “HUMILITAS”, scritta sempre in caratteri gotici e coronata, si ritrova singolarmente o inserita all’interno di altri stemmi famigliari e allude alla virtù dell’umiltà dinanzi a Dio. Sebbene cara a San Carlo (1538-1584) che, cardinale e arcivescovo di Milano, la raffigurò in un suo sigillo, non fu da lui ideata, ebbe in realtà un’origine antecedente. Risalirebbe infatti al 1444, a più di cent’anni prima, ai tempi in cui Vitaliano dei Vitaliani, capostipite per successione ereditaria dei Borromeo, nei pressi della chiesa di Santa Maria Podone a Milano, edificò un’opera pia volta al sostentamento di poveri vergognosi detta appunto “Luogo pio dell’Umiltà[19]”. All’esterno di tale struttura sarebbe stata appunto scolpita nella pietra l’iscrizione HUMILITAS. Si ritroverebbe anche miniata in caratteri gotici e coronata ai lati del testo del diploma datato 27 aprile 1445 con il quale il duca Filippo Maria Visconti conferì la contea di Arona[20] al conte Vitaliano Borromeo.
Impresa della Corona (Vitaliano I Borromeo)

Una corona d’oro si ritrova nello stemma famigliare dei Borromeo da quando Vitaliano Borromeo fu creato conte di Arona (1445).
Impresa del Cedro (Vitaliano I Borromeo)

Un cedro d’oro, stelato e fogliato di verde, simboleggia le ricchezze e l’opulenza dell’Isola Madre nel Lago Maggiore, feudo dei Borromeo.
Tutti questi simboli con il trascorrere del tempo, nello stemma famigliare cambiarono sovente di posizione e furono inoltre riprodotti su oggetti delle più svariate produzioni artistiche, legati ai vari personaggi della stirpe dei Borromeo.
Impresa dei Tre Anelli intrecciati in fascia (Guido Torelli)

Tre anelli, i primi due d’argento e il centrale di rosso, sono uno nell’altro ordinati in fascia. Ciascuno di loro porta incastonato un diamante dal taglio con la caratteristica punta piramidale, considerato particolarmente pregiato nella prima metà del XV secolo. Alle pietre preziose ai tempi erano riconosciuti particolari poteri magici che li trasformavano in amuleti contro malattie e sventure. Quale cerchio che non ha inizio e non ha fine, l’anello acquisiva anche significati simbolici alludenti all’eternità e alla perfezione, con implicazioni legate a valori come onore e forza d’animo, nell’accezione di fede matrimoniale poteva indicare fedeltà e veniva baciato in segno di omaggio e di riconoscimento di potere.
Il registro della decorazione parietale della sala si dipana in un intreccio a grandi rombi che,costituti da maglie inserite una nell’altra a formare una catena di anelli alternati a cedri, racchiudono ai loro centri le imprese dei Borromeo, a testimonianza dell’onorifico rapporto di amicizia tra Guido Torelli e Vitaliano I Borromeo, entrambi elevati al titolo onorifico di conte da Filippo Maria Visconti. L’impresa dell’anello, utilizzata quasi contemporaneamente dai Visconti, dagli Este, ma anche dagli Sforza e dai Medici, è una tra le più celebri, ma anche tra le più misteriose quanto a significato e datazione. Varie notizie tramandate sfociano in interpretazioni che, sconfinando nel fantastico, generano disorientamento. È stato documentato come un singolo anello diamantato fosse stato scelto quale impresa dagli Este, mentre anelli intrecciati in numero di due, di tre o fin anche di quattro, non di rado accompagnati da altrettante penne (di struzzo, di pavone o di falco), fossero impresa appannaggio comune delle famiglie dei Medici[21] e dei Rucellai. Niccolò III d’Este, marchese di Ferrara, nel 1409 concesse l’impresa dell’anello al condottiero Muzio Attendolo, detto lo Sforza, per la conquista di Reggio Emilia, Parma e Borgo San Donnino (Fidenza), possedimenti già appartenuti a Ottobuono o Ottobono Terzi[22] (1370-1409). Anche Gabrino Fondulo (1370-1425) avrebbe portato in seguito un’impresa simile. Ricorrendo all’ausilio della numismatica, attraverso l’esame del medagliere dei della Gherardesca a Pisa, Diego Sant’Ambrogio[23] attestò l’esistenza di una piccola moneta in lega d’argento che, appartenuta a Gabrino Fondulo[24], insieme a una legenda corrosa poco leggibile, presentava un simbolo simile, fuor ché invece di uno, mostrava tre anelli intrecciati a triangolo. L’antico possessore, alleato di Ottobono, nel 1413 volle farsi proclamare signore di Cremona e, allo scopo di legittimare il proprio potere, si fece conferire dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo il vicariato imperiale sulla città, con concessione della relativa contea. L’anno seguente si mostrò lui in persona a ricevere l’imperatore e l’antipapa Giovanni XXIII, con tutti gli onori. A tale evento sembrerebbe alludere l’impresa dei tre anelli che rappresenterebbero simbolicamente la concomitanza nel governo della città di Cremona dei tre poteri, quello dell’imperatore, dell’antipapa e di Gabrino stesso. Accusato di connivenza con i Veneziani, Gabrino morì decapitato a Milano (1425) dopo essere stato catturato a tradimento presso il castello di Castelleone da Oldrado Lampugnani per ordine di Filippo Maria Visconti che s’impossessò della Signoria di Cremona, donata subito in dote alla propria figlia naturale Bianca Maria, come documenta il contratto nuziale con Francesco Sforza. Un’impresa che a Francesco Sforza fu particolarmente cara, perché era connessa alla sola signoria che gli spettava legalmente. Dopo la morte del duca Filippo Maria Visconti, Francesco Sforza, conquistato il ducato di Milano, per ingraziarsi e ricompensare le famiglie milanesi che, particolarmente vicine alla corte, l’avevano appoggiato nella conquista del potere, le insignì dell’impresa dei tre anelli intrecciati a triangolo che, infatti, campeggia negli stemmi delle famiglie Borromeo, Birago, Sanseverino e Gavazzi della Somaglia.
All’inizio della propria carriera di condottiero, Guido seguì Ottobono Terzi, a cui era peraltro legato da vincoli di parentela e da cui venne investito nel 1403 delle signorie di Guastalla e di Montechiarugolo. Alla morte di Ottobono si legò ad altri della famiglia tra cui Jacopo e al più celebre Niccolò Terzi (c†1475) il Guerriero, che di Ottobono era figlio naturale. Probabilmente tali frequentazioni indussero Guido ad assumere l’impresa che circolava in quei territori e che comunque rivestiva un ruolo importante nella cerimonia dell’investitura feudale, quale simbolo onorifico del potere
Sala di Mezzo [5]
Guido Torelli (arma personale tipo B1 variante con solo incremento “angioino”)
Arma: D’oro, al leone d’azzurro, carico sulla spalla di una fiamma[25] cucita di rosso (Giovanna II d’Angiò-Durazzo).

Camerone delle Bisse [6]

Guido Torelli (arma personale tipo B2 variante con solo incremento “angioino errato”)
Arma: Di [oro], al leone di [azzurro], carico sulla spalla di una stella[26] (6) cucita di [rosso] (Giovanna II d’Angiò-Durazzo).
Scudo a tacca, recante le lettere in caratteri gotici, sormontate da tilde[27] ad arco, in alto «CO [Comes]» e ai fianchi «G [Guidus]» e «T [Torellus]».
Guido Torelli (arma personale tipo A1, incremento con cartiglio)
Arma: Di [argento], al biscione di [azzurro], coronato di [oro], ondeggiante in palo e ingollante un fanciullo di [rosso](Visconti); con in orlo un cartiglio attorcigliato, cucito del campo, carico nelle volute del motto, in caratteri gotici, ripetuto tre volte YN HOFFEN di nero.
Scudo a tacca, recante le lettere in caratteri gotici, sormontate da tilde[28] ad arco, in alto «CO [Comes]» e ai fianchi «G [Guidus]» e «T [Torellus]».
Impresa dei Tre Anelli intrecciati in fascia (Guido Torelli)
Tre anelli uno nell’altro e ordinati in fascia, i primi due d’argento e il centrale di rosso, portano ciascuno un diamante incastonato, tagliato con la caratteristica punta piramidale, considerato particolarmente pregiato nella prima metà del XV secolo.
Il registro della decorazione parietale nella sala si dipana in un intreccio a grandi rombi costituti da maglie inserite una nell’altra a formare una catena di anelli che si alternano a cedri in cui appare inserito il motto in caratteri gotici: YN HOFFEN. I rombi racchiudono alternativamente al centro gli stemmi e il motto declinato in un cartiglio arrotolato con il motto personale di Guido. Tale decorazione appare del tutto simile a quella già rinvenuta nella Sala Borromeo che in realtà, forse per lo stato di pessima conservazione, risulta priva del motto.
Genealogia della famiglia Torelli
GUIDO TORELLI (1379-1449), conte di Guastalla e Montechirugolo (1428), marchese di Casei Gerola, signore di Cornale, Zeccone, Settimo Torinese, Villareggio, Martorano, Lemignano, Basilicagoiano, Mariano Comense e Tortiano, sposò Orsina Visconti di Somma.
nato a Milano nel 1379, discendente di una famiglia ferrarese di fazione ghibellina, capitano dei Visconti e valente condottiero, fu il protagonista dell’ascesa politica della famiglia dei Torelli che regnarono su Montechiarugolo e Guastalla sino al XXVII secolo.
Dedito al mestiere delle armi, prima come capitano al servizio di Ottobono Terzi, poi autonomamente al servizio dei Visconti, si guadagnò un privilegiato rapporto di fiducia con la corte milanese, suggellato anche dal suo matrimonio con Orsina Visconti di Somma, figlia di Antonio e cugina dei duchi Giovanni e Filippo Maria.
La fedele militanza filoviscontea portò i primi importanti risultanti quando, dopo la morte nel 1402 di Gian Galeazzo Visconti, Duca di Milano, tra i disordini causati dai vari ducati dell’area del parmense che si rivoltarono al dominio centrale, Guido dimostrò ampie abilità diplomatiche rimanendo sempre sostenitore e al fianco dei Visconti. Questa si dimostrò una scelta felice in quanto, una volta vittoriosi questi, nella persona di Giovanni Maria Visconti, il 3 ottobre 1406, ricompensarono Guido Torelli con l’investitura dei feudi di Montechiarugolo e Guastalla.
Tra le sue numerose imprese militari certamente da ricordare è, nel 1421, al fianco del Carmagnola, la conquista di Genova, di cui fu per alcuni anni governatore; da qui partì nel 1423 al comando della squadra navale inviata dai Visconti per liberare Napoli dall’usurpazione da parte di Alfonso d’Aragona con esito vittorioso nell’aprile del 1424.
Tutto ciò valse in questi anni alla conferma dei diritti feudali su Monteghiarugolo e Guastalla, che il 6 luglio del 1428, furono eretti in contea sempre a favore di Guido e dei suoi discendenti, con ampi privilegi ed esenzione di dazi. Contestualmente Filippo Maria concedette ai Torelli di potersi fregiare del “Biscione Visconteo” che da quel periodo venne inquartato nelle insegne della famiglia.
La solidità dei legami tra Torelli e i Visconti, confermata dalla partecipazione alla vittoriosa battaglia navale sul Po contro i veneziani, il 22 maggio 1431 presso Cremona, sullo sfondo dello scontro tra la Serenissima e Milano per il controllo di Soncino, portò stabilità politica alla piccola signoria che poté trasmettersi facilmente ai discendenti, oltre a guadagnare vantaggi territoriali; e la tregua tra Milano e Venezia del 1433 diede agio di consolidare il dominio.
Gradualmente i figli affiancarono il padre nel governo dei feudi di famiglia e nell’attività militare. In particolare, Cristoforo, militando sotto le insegne sforzesche, inflisse un’altra dura sconfitta all’esercito veneziano cannoneggiandone la flotta intenta ad approdare a Casalmaggiore nel luglio del 1448.
Guido Torelli morì nel 1449 mentre si trovava a Milano, in attesa che Francesco Sforza prendesse la città dopo la crisi del 1447-49 (morte di Filippo Maria Visconti e Repubblica Ambrosiana). Il corpo fu portato a Mantova e deposto nella chiesa di S. Francesco.
A Guido, primo vero Signore di Montechiarugolo, si deve la trasformazione del fortilizio trecentesco in un complesso con carattere oltre che residenziale quello di splendida dimora signorile.
Figli:
CRISTOFORO TORELLI (1409-1460), conte di Montechirugolo, signore di Casei Gerola, Cornale, Luzzara e Castelnuovo, sposò Taddea Pio di Carpi.
PIETRO GUIDO TORELLI (†1460), conte di Guastalla, signore di Settimo Torinese e Villaregio, sposò Maddalena del Carretto.
Genealogia della famiglia Borromeo
VITALIANO I (DEI VITALIANI) BORROMEO (1390-1449), conte di Arona (1445), sposò Ambrosina Fagnani.
Figlio:
FILIPPO (1419-1469), conte di Arona e Peschiera, sposò Francesca Visconti di Castelletto.
Figlio:
GIOVANNI (1424/1439-1495), sposò Cleofe Pio di Carpi.
Figlio:
GIBERTO I (1451-1508), conte di Arona e Peschiera, sposò Magdalena di Brandeburgo.
Figlio:
FEDERICO (1493-1528), conte di Arona e Angera, sposò Veronica Borromeo.
Figlio:
GIBERTO II (1515-1558), conte di Arona, Angera e Peschiera Borromeo, sposò Margherita Medici di Marignano (sorella di Giovanni Angelo (1499-1565), Papa Pio IV), tra i figli nati dal matrimonio si annovera il Santo Cardinale Carlo Borromeo.
[1] Arma parlante, cioè stemma le cui immagini o figure alludono immediatamente al nome della famiglia (Torelli = toro). Varie furono le famiglie Torelli con diramazioni in diverse città italiane ed estere e per lo più mantennero il “toro” come emblema anche all’interno degli stemmi più diversi.
[2] P. LITTA, Famiglie celebri d’Italia, Milano 1819-1883, fasc. 59, Torelli di Ferrara.
[3] In quel periodo, Filippo Maria Visconti concesse privilegi simili, oltre che al Torelli, a diversi altri capitani quali il Carmagnola, gli Aicardi e Francesco Sforza, allo scopo di placare la loro insaziabile fama di potere. Per una documentata bibliografia riguardante la folta schiera degli ambiziosi condottieri, vedi: F. CENGARLE, Feudi e feudatari del duca Filippo Maria Visconti. Repertorio, Milano 2007. Le concessioni che accompagnavano le investiture feudali risultavano più o meno durature nel tempo a seconda delle contingenze e delle situazioni locali e generalmente riguardavano terre localizzate in regioni periferiche del dominio, quali i territori appenninici o delle ex-signorie emiliane. Con le consuete formule di rito, includevano l’utilizzo del nome e dell’arma, oltre all’obbligo di una sposa scelta generalmente tra le rappresentanti dei vari rami minori dei Visconti.
[4] Simbolo medievale convenzionale di abbreviazione (detta anche abbreviatura) nella scrittura corrispondente alla riduzione di una o più lettere o parole per troncamento, in questo caso specifico si riferisce al titolo onorifico e al nome personale del committente.
[5] Talvolta scritto «IN HOFFEN» o «IN OFFEN» (U. DALLARI, Motti araldici editi di famiglie italiane, Roma 1922 (rist. anast. Bologna 1965), pp.82-83). Dallari riporta inoltre lo stemma dei Torelli ramo di Pavia: arma: Inquartato: nel 1° e 4° dei Visconti; nel 2° d’oro, al leone d’azzurro coronato del campo, caricato sulla spalla d’una stella d’oro; nel 3° d’azzurro, al toro rampante d’oro; sul tutto d’azzurro, al cane d’argento assiso a piè d’un albero terrazzato di verde, e a un avambraccio vestito d’argento in sbarra, uscente da una nuvola, movente dal fianco sinistro e tenente un laccio attaccato al collo del cane.
[6] Secondo la dottrina cristiana, la “speranza”, abbinata alla “fede” e alla “carità”, è una delle tre Virtù Teologali e non può essere ottenuta attraverso il solo sforzo umano, ma è infusa nell’uomo dalla Grazia Divina per mezzo dello Spirito Santo (vedi infra impresa “mano celeste con penna d’oca”).
[7] La fiamma, rappresentata in araldica con lingue di fuoco, arrotondata inferiormente e terminante in alto con tre punte ondeggianti, simboleggia lealtà, fede, illustre fama e splendore di nome, gli fu direttamente concessa dalla regina di Napli: «Dallo stesso Duca (Filippo Maria Visconti, n.d.a.) fu spedito nel 1423 in soccorso di Giovanna II, regina di Napoli contro Alfonso V, re di Aragona. Salpato da Genova giunse rapidamente a Gaeta, ed attaccò quel porto. La città e la fortezza riempite delle truppe di Alfonso si adattarono a dei patti. […] Di là passò a sottomettere Capua, e quindi se ne ritornò a Napoli. Giovanna risalita sul trono lo creò primo barone del ducato di Puglia e del principato di Capua, investendolo dei feudi di Torretta, Galuzia e Gajazza, ed in una pubblica festa, che si diede a GUIDO trionfatore, gli donò un ricco scudo d‘oro, ov’era inquartato insieme alle armi di casa TORELLI, un Leone azzurro , avente nel cuore una fiamma rossa per simbolo del di lui coraggio» (L. TETTONI, F. SALADINI, Teatro araldico ovvero raccolta generale delle armi ed insegne gentilizie delle più illustri e nobili casate che esistettero un tempo e che tuttora fioriscono in tutta Italia, Lodi e Milano 1841-1851, III, ad vocem Torelli di Montechirugolo).
[8] Vedi supra n. 4.
[9] «[… ] si dicono imprese tutte le cose grandi et notabili, che i Principi e i maestrati si tolgono à fare [… ]», così Girolamo Ruscelli, uno dei più insigni studiosi di “imprese”? del Cinquecento, definiva gli emblemi che si apprestava ad analizzare, cogliendoli nel momento del loro maggiore fulgore tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Seicento, momento in cui entrarono a far parte non solo della storia del costume, ma anche del mondo dell’arte rinascimentale. Nel linguaggio araldico, quindi, per impresa s’intende una figura allegorica (corpo) quale «ritratto dell’anima», ovvero simbolo visivo caratterizzato da precisi attributi di carattere personale, accompagnato spesso da un motto o divisa (anima) che, in genere, scritto all’interno di un cartiglio, ha come scopo l’esprimere metaforicamente all’unisono concetti sintetizzati ermeticamente in vere e proprie visioni programmatiche, basate su percezioni estetiche, ben radicate in ideologie di fondo. In realtà l’esperienza insegna come non tutte le “imprese” siano dotate di un motto utile a chiarirne il significato. Nella frase «mancando il soggetto all’anima o l’anima al soggetto, l’impresa non riesca perfetta», il Giovio sintetizza il pensiero proprio e di molti altri studiosi. In un secondo luogo, sostiene come l’impresa non debba essere eccessivamente oscura, «ch’abbia mestiero della sibilla per interprete», né troppo chiara, «ch’ogni plebeo l’intenda». Quest’ultima osservazione è assai significativa, poiché ci suggerisce di ricorrere a codici di lettura diversi e di non limitarsi, quindi, a banali interpretazioni dettate dall’immaginario collettivo. Anche se il senso comune suggeriva di non indulgere in un eccessivo gusto dell’enigma, le immagini legate alle imprese utilizzate in opere d’arte figurativa non appaiono per lo più immediatamente percepibili, ma nascondono significati comprensibili solo a una minoranza di persone. Adottata da singoli individui, l’impresa aveva spesso lo scopo di commemorare importanti avvenimenti riguardanti la vita privata o di esaltare la magnificenza del potere pubblico del personaggio. Si proponeva anche d’illustrare tratti del carattere, esibendo virtù personali, spesso divinizzate, indagando nella sfera emozionale e spingendosi a decodificare con accurate analisi, la vita stessa della persona. Per le imprese vedere l’antica e sempre valida bibliografia: A. ALCIATO, Il libro degli emblemi, secondo le edizioni del 1531 e del 1534, a cura di M. GABRIELE, Milano 2009; Dialogo dell’imprese militari et amorose, di monsignor Giovio vescovo di Nocera, in Vinegia appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, MDLVI; Imprese Sacre con triplicati discorsi illustrate & arricchite […], di Monsig Paolo Aresi, in Milano, Per li impressori Archiepiscopali, 1624; F. PICINELLI, Mondo simbolico, o sia università d’imprese scelte, spiegate ed illustrate con sentenze ed erudizioni sacre e profane, per lo stampatore Archiepiscopale, Milano 1653; J. GELLI, Divise, motti ed imprese di famiglie e personaggi italiani, Milano 1916; e la recente: G. DE TERVARENT, Attributs et Symboles dans l’art profane 1450-1600, Genève 1959; M. PRAZ, Studies in seventeenth-century imagery: a bibliography of emblema books, Roma 1975 (1964); J. CHEVALIER, A. GHEERBRANT, Dizionario dei simboli, Milano 1986; G. CAMBIN, Le rotelle milanesi. Bottino della battaglia di Giornico 1478. Stemmi, imprese, insegne, Fribourg 1986; G. MALDIFASSI, R. RIVOLTA, A. DELLA GRISA, Symbolario, la piazza ducale di Vigevano e le imprese araldiche lombarde, Vigevano 1992; L. BOLZONI, S. VOLTERRANI (a cura di), Con parola brieve e con figura. Emblemi e imprese tra antico e moderno, Pisa 2008.
[10] Per ordine dell’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250), lo studioso Teodoro d’Antiochia tradusse il cosiddetto Moamyn (De scientia venandi per aves), probabile opera dell’erudito medico arabo Abü Zayd Hunayn (809-873). L’opera in sei volumi De arte venandi cun avibus, trascritta dal figlio di Federico, Manfredi di Sicilia (1232-1266), costituì una vera e propria opera omnia che analizzava tutti gli aspetti di questo fenomeno socio-culturale, passando in rassegna tutti i possibili impieghi degli uccelli rapaci nella caccia di altri volatili.
[11] «I suoi argomenti preferiti erano la guerra o i cavalli o la natura degli uccelli e dei cavalli» (P.C. DECEMBRIO, Vita di Filippo Maria Visconti (1447), a cura di E. BARTOLINI, Milano 1983, p. 102).
[12] «Con lo stesso impegno andava procacciandosi uccelli rari e famosi, astorri, massimamente, che gli arrivavano fino dalla Dacia, dalla Pannonia, dai Monti Rifei. Ne aveva tanti che, per nutrirli, sopportava una spesa mensile di tremila aurei, disposto a pagare a chi glieli procacciasse anche dieci aurei per ciascun esemplare» (DECEMBRIO, Vita di Filippo Maria Visconti (1447), p. 111).
[13] Dicasi “rivoltato” l’animale che, nella rappresentazione araldica, guarda o appare rivolto con il proprio corpo verso la sinistra araldica dello scudo, cioè verso a destra di chi guarda. In questo caso guarda lo stemma visconteo con il biscione e si dice quindi rivoltato “per cortesia”.
[14] Vedi supra n. 7.
[15] Vedi supra n. 7.
[16] J. HALL, Dizionario sei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1983, p. 253.
[17] In realtà, poiché provvisto di una sola gobba, si tratterebbe di un dromedario, ma in araldica tale raffigurazione è definita “cammello”.
[18] TETTONI, SALADINI, Teatro araldico, ad vocem Borromeo di San Miniato.
[19] S. LATUADA, Descrizione di Milano, Milano 1751, IV, pp. 164-165, n.
141; N. SORMANI, Descrizione sacra di Milano antico, e moderno regolata sul corso divoto delle quarant’ore, Milano 1760, pp. 80-81: C. BASCAPÈ, M. DEL PIAZZO, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata, medievale e moderna, Roma 1983, p. 178.
[20] A. GIULINI, Lo stemma del Borromeo, in Verbania, 1910, II, p. 285, n. 12.
[21] L’impresa con un anello e tre penne fu così descritta da Paolo Giovio: «È ben vero, ch’ei diceva, che ‘l Magnifico Lorenzo s’haveva esurpato un d’essi con gran galanteria, insertandovi dentro tre penne di tre diversi colori; cioè verde, bianco e rosso, volendo che s’intendesse, che Dio amando fioriva in queste tre virtù, Fides, Spes, Charitas, appropriate à questi tre colori, la Fede candida, la Speranza verdem la Charità ardente, cioè rossa;» (P. GIOVIO, Dialogo delle imprese militari e amorose, in Lione appresso Guglielmo Roviglio 1559, pp. 40-41)
[22] «El marchese (Niccolò III d’Este, nda) dette Montecchio de Parmesana in tutto liberamente a Sforza, et li dette il stendardo de diamanti. Allora Sforza comensò a portare inanse et mandare el stendardo de quartieri sotto cui andavano li saccomanni […]. Et li homini d’arme andavano poi sotto el stendardo de diamanti con loro regazi (A. MINUTI, Vita di Muzio Attendolo Sforza, in Miscellanea di storia italiana, VII, G. Porro Lambertenghi (a cura di), Torino 1869,, Vita di Muzio Attendolo Sforza, p. 154).
[23] Presenta nel recto la legenda «C[ABRIN]VS […]» con i tre anelli intrecciati a triangolo, e nel verso, «CREMONE DNS[…]» con una croce patente (D. SANT’AMBROGIO, Dell’impresa araldica dei tre anelli intrecciati concesso da Francesco Sfiorza a parecchie famiglie patrizie milanesi, Archivio Storico Lombardo, 1891, pp. 392-394).
[24] «Tale arma costituiva l’emblema della famiglia Fondulo, che nel 1420 vendette Cremona a Filippo Maria Visconti, insieme al suo stemma. Il Visconti pare non l’usasse mai, preferendone altre. Sta di fatto che i “tre anelli” costituiva un’impresa sicuramente legata a Cremona e, in quanto spettante ai Visconti, anche di pertinenza ducale. Quando Francescxo Sforza nel 1450 fu eletto dai milanesi duca di Milano assunse i motti e l’araldica del suocero del quale intendeva porsi come un diretto erede. Tuttavia il mancato riconoscimento della sua nomina da parte dell’imperatore gli impediva di assumere legalmente e in via ufficiale il titolo di duca, nomina ricevuta solo dalle ovazioni del popolo milanese, e, come tale, non ammessa dal protocollo imperiale. Attraverso il possesso di Cremona città ducale concessagli ufficialmente come dote di Bianca Maria, lo Sforza poteva presentarsi col titolo di duca non solo di fatto, ma anche di diritto legittimo. Per questo egli usò frequentemente l’arma dei “tre anelli intrecciati” soprattutto nei primi anni del suo ducato» (S. BANDERA BISTOLETTI, Bonifacio Bembo. Tarocchi viscontei della Pinacoteca di Brera, Milano 1991, p. 28).
[25] Vedi supra n. 6.
[26] La stella-astro, dalle molte implicazioni alchemiche e massoniche, risulta tra le figure più diffuse nell’araldica fin dai suoi esordi. Simboleggia persona illustre in armi e lettere, dalle azioni magnanime e grandi, dalla chiara fama, dalla gloriosa nobiltà e dallo splendore famigliare. Come si evince, il suo significato si avvicina a quello della fiamma (vedi supra n. 7), e risulta pertanto plausibile che, allo scopo di distinguersi, con il tempo alcune famiglie Torelli abbiano assunto la stella al posto della fiamma. In questo caso ulteriori equivoci tra le due figure possono essere stati generati da un restauro, in tempi recenti, non corretto anche realizzato su superfici scialbe come si evince dallo stato di altre sale. Era infatti improbabile che Guido nel proprio castello, avesse compiuto ai suoi tempi un errore così evidente nell’interpretazione dello stemma concessogli dalla regina di Napoli, peraltro correttamente disegnato negli stemmi del della sala nel mastio-
[27] Vedi supra n. 4.
[28] Vedi supra n. 4.